
Ancora New York a far da centro e sfondo di una vicenda che intriga mettendo a fuoco un immaginario di largo respiro e di buona risonanza antropologica. E’ sempre la consistenza e l’articolata agibilità di personaggi alternativi a far la differenza. Coloro che vivono nei suoi meandri la coltivano con maledetta rassegnazione e chi ha il coraggio di oltrepassare i suoi marciapiedi sconnessi potrebbe convincersi di avere il favore delle stelle. Siamo in uno dei quartieri pulsanti della città per policroma varietà sociale,non certo dove risiede l’agiatezza ma nel reticolo di strade e costruzioni fatiscenti che i palazzinari rampanti vorrebbero demolire. I residenti fanno delle vite un bagaglio colmo di adrenalina,per sopravvivere,per assecondare l’istinto o per credere che contengano un divenire. Qui incontriamo un barista che per forza di eventi la speranza se l’è proprio dimenticata (forse) avendo vissuto un periodo giovanile da lanciatissimo campione di baseball,ma un grave incidente pare averlo gettato nel bidone indifferenziato. Vive con un coinquilino di reputazione non ottimale e se ha trovato l’amore di una vibrante e decisa ragazza che fa il paramedico questo va a collocarlo con riserva nella sfera del probabile riequilibrio. New York e le sue genti,il famigerato furore dei clan,le confluenze malavitose di etnie varie,schieratissime,violente,che all’improvviso sembrano scatenarsi e congiurare contro il giovane innocente per nulla fortunato. Un motivo apparente però ci ha avvertito dicendo sottovoce che la generosità talvolta apre congiunture nefaste. E’ bastato un favore particolare all’amico assentatosi da casa e ora tutta la peggior teppa s’infuria contro di lui. La metropoli newyorkese ricompare come fosse intessuta da facciate di affreschi che rammentano il pennello di Basquiat,sono fondamentali i contrasti espressivi e le geometrie irrazionali a lievitare l’alchimia filmica della storia. Un po’ come accadeva in
Anora evidenziamo i ritratti capovolti,del tutto distolti da ruoli preordinati,che spuntano come funghi contaminati nell’agone odierno soverchiato di utilitarismo. Non manca quel senso grottesco e vitale,pieno di contagiosa,ieratica ambiguità,che affascinò anche Martin Scorsese in
Fuori Orario e guarda il caso troviamo uno degli interpreti di allora,Griffin Dunne. La pellicola è una dark-comedy che viene immersa nel solforoso impasto di un drama-crime,estraendo con contiguità i processi creativi di ambedue i generi,mostrando comunque dinamiche narrative appassionanti e di pregio. La brillante sceneggiatura di Charlie Huston è esemplare,pagine di validi meccanismi che diramano il suo svolgimento. Varrebbe senz’altro la pena per una lezione a scuola di cinema,si riconosce all’interno un procedimento perfetto che di solito serve a gestire,irrobustire e dar forma egregia al plot di un film. All’inizio vediamo un gatto che il protagonista (Austin Butler) dovrà accudire e lo ritroveremo di sfuggita in importanti capitoli. Il simpatico felino nell’economia della scrittura,soprattutto nel gergo sceneggiatore,forma il
MacGuffin,un espediente complementare ma pretesto primario nell’avviare o far avanzare la trama. Aronofsky regista in un racconto diverso dalle sue tipologie filmografiche riesce a personalizzarlo,conducendolo nelle sue prossimità,rappresentando il sottile filo che ricollega le giuste dritte verso il sole. Se non vuoi restare a terra caccia lontano il cigno nero che ti assilla.