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Il Meglio e il Peggio del mese
DIABOLIK di Antonio Manetti, Marco Manetti
Sceneggiatura di Antonio Manetti,Marco Manetti,Michelangelo La Neve

Con Luca Marinelli,Miriam Leone,Valerio Mastandrea,Alessandro Roja

L’avvolgente e inquieto fascino di Diabolik non apparteneva per sicuro alla classicità del racconto criminale ma ridiscutendo labili equilibri del protagonismo fra buoni e cattivi,che in quell’epoca si stavano affermando con furore,venne fuori un’equazione insolita per tutto l’ambito culturale italiano. Le stripes in bianco e nero di Diabolik,dove il nero acquisisce centralità ieratica e le tinte verso il chiaro non sono cifra in opposizione ma la pacata energia razionale a supporto di un carisma sui generis,hanno rappresentato un vero stravolgimento nutrendo generazioni di ogni età. La singolarità del furfante senza freni inibitori disposto al crimine più efferato non è quella del ladro gentiluomo. Tantomeno sa adeguare concetti di ribelle,generosa socialità quali rubare ai ricchi per dare ai poveri: Diabolicamente individualista e con un po’ di corrucciato egocentrismo sembra firmare nelle proprie imprese il quid originale che si concede all’opera d’arte. La ricerca della perfezione assoluta nelle maschere,pignolo metamorfismo per estendere probabilità e calarsi nella somiglianza altrui fanno il resto del metodo. Il comic ambientato in una Francia atipica che dà l’illusione lontana di scenario probante ha significato un nuovo modello comunicativo,perché nella lettura di Diabolik veniva assaporato un altro tipo di discernimento ormai affermato in quegli anni. Allora tutti simpatizzarono per Diabolik lasciando all’avversario,il compassato ispettore Ginko,qualunque riferimento di sostanza che avesse a cuore l’ancien régime. Ma nell’uomo dagli occhi implacabili si avvertiva qualcos’altro,era un richiamo severo ed emotivo che colpì le giovani lettrici. Anche Eva Kant,partner delle sottigliezze coadiuvava con esemplare solerzia il legame con il maestro del crimine,mettendo nell’armadio della complicità una creazione di reciproca intesa che consegnò al lettore un ideale di fusione al femminile come non s’era visto. Il fumetto aveva liberato un sottile tiro di carica sexy che per leggenda o pura voglia di rituffarsi dentro spinge ancora il power e rilancia nuove esperienze visuali. A sei decenni dalla nascita editoriale rientra sul grande schermo dopo che Mario Bava (Diabolik,1968) fece la prima trasposizione. L’occasione pone due domande,come rimettere in gioco i tanti luoghi impressionisti e le topiche che il linguaggio della pagina disegnata hanno tramandato? Altrettanto primario diventa il rapporto congenito che s’implementa quando il fumetto si struttura in film perciò,in quale modo il racconto va affrancato dal modello originale per trasformarsi in inedita forma di prototipo cinematografico? Si riadatta una delle prime storie,L’Arresto di Diabolik,dove si cominciava a far confidenza con la genesi e le tendenze dei personaggi,ma la pellicola dei Manetti Bros.viene indirizzata sul percorso più cristallizzante che si potesse immaginare disponendola alla mercé del più nefasto dei risultati possibili. La paura di perdere lo spirito originario del fumetto (forse sperare di raggiungerlo con velleità),consegna una traccia di estetismo surgelato,involuto,che pare voler mettere in museo con straniante esibito orgoglio una figura non di certo granitica ma affaticata dal tempo. Film di immagini statiche,anticinema,non accetta il brio dell’immaginazione a cascata. L’ombra di Diabolik appare alla stregua di un cetaceo nella palude che non può disporre più del suo maestoso oceano,ma tutto il cast è indistintamente inadeguato nel saper ricreare la calzamaglia e l’habitat del nero supereroe. A tutt’oggi la produzione del ‘68 (si vede spesso in tv) risulterà forever young e molto più vicina ai motivi d’origine. C’era un irruento Diabolik (John Phillip Law),un dandy instancabile nell’investigatore Ginko (Michel Piccoli) e una inimitabile,sensualissima Eva (Marisa Mell). Fu considerato un film di medio livello,ma il finale con quella colata d’oro che avvolge il corpo di Diabolik quasi mutandolo in lingotto fotografò con buona prossimità la percezione di un periodo estroso accendendo una singolare reazione. La scena piacque a Andy Warhol che citandola in seguitò con divertita vena si mostrò assai ricettivo davanti alla precisa identità iconica dal volto smagliante e provocatorio. Diabolik si era conquistato suo malgrado un posto tra i grandi del Pop.